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Storia Bomba Atomica

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view post Posted on 4/1/2014, 16:08




IL CONTESTO STORICO PRIMA DELL’ESPLOSIONE DELLA BOMBA “A”



Gli anni in cui la scienza dà il suo maggior contributo alla scoperta dell’energia nucleare e al suo sfruttamento comprendono un arco di tempo di circa venti anni, anche se, è giusto sottolinearlo, gli sforzi per la ricerca di una nuova arma bellica che sfruttasse l’energia nucleare si sono moltiplicati durante il secondo conflitto mondiale. Gli Stati Uniti, che vengono considerati come la patria della bomba A, non sono stati, comunque, gli unici a tentare di trovare una soluzione violenta e rapida per porre fine alla guerra: anche i tedeschi, infatti, erano attivamente impegnati nella ricerca. Dopo il 7 dicembre del 1941, giorno in cui le truppe Giapponesi affondarono gran parte della flotta americana a Pearl Harbor, gli Usa entrarono attivamente nel conflitto mondiale con due principali obiettivi: il primo era quello di sconfiggere le forze nazifasciste italiane e tedesche, il secondo quello di eliminare militarmente il Giappone. Entrambe le imprese però si rivelarono tutt’altro che facili. La situazione in Europa era decisamente complessa, anche se, dopo il 1942-43, le truppe dell’asse avevano subito una dura sconfitta In Russia, in un impresa che è tristemente passata alla storia per l’ecatombe finale subita, oltre che dall’esercito tedesco, anche da quello Italiano dell’ARMIR nella quale persero la vita migliaia di soldati. Questa sconfitta ebbe grande influsso anche sulla politica interna dei due stati, italiano e tedesco, i cui regimi totalitari non avevano più, soprattutto in Italia, il pieno consenso: si aprì così, per le truppe Alleate, la strada per la risoluzione del conflitto almeno a livello Europeo. Dopo le sconfitte subite in Africa da parte degli inglese, gli Italiani dovettero assistere anche allo sbarco degli Americani sulle coste della Sicilia che aprirà la crisi del regime fascista, definitamente sconfitto solo il 25 aprile del 1945 quando le truppe Alleate liberarono, anche grazie ai Comitati di Liberazione dell’Alta Italia, la cosiddetta “Repubblica di Salò”, che rappresentava l’estremo tentativo di Mussolini, di mantenere le redini del potere. Il 6 giugno del 1944, le truppe alleate assestarono un altro duro colpo ai regimi totalitari: con lo sbarco in Normandia le truppe americane, contemporaneamente aiutate da sud dalle truppe inglesi e francesi che combattevano in nome di De Gaulle, furono in grado di liberare la Francia dall’oppressione tedesca. Contemporaneamente, la controffensiva russa schiacciava da est la Germania, liberando la Polonia e procedendo poi su Berlino: il 7 marzo
del 1945, quando le prime unità inglesi e sovietiche varcarono i confini est e ovest della Germania, il regime di Hitler fu definitivamente sconfitto e il Führer si suicidò. Per gli Usa, nonostante queste decisive vittorie, la guerra, però, non era finita, in quanto mancava il secondo obiettivo principale: il Giappone. Infatti, contemporaneamente alle operazioni militari in Europa che costituivano un grande dispendio di denaro e forze, gli Usa dovevano pensare al fronte asiatico dove il Giappone costituiva una grande minaccia. Dopo l’attacco del 1941, gli americani risposero nel ‘42-’43 con violenti attacchi a Midway, nel Mar dei Coralli, a Guadalcanal e successivamente, in Nuova Guinea, conquistata, successivamente, dalle forze di Roosevelt (contemporaneamente anche i Cinesi di Mao avevano attaccato il Giappone). Nonostante questi attacchi, e quello successivo del 1944 nell’Isola di Leyte che rappresenta il più grande attacco navale di tutta la guerra, i Giapponesi non demordevano, anzi l’azione disperata, che mirava alla difesa della patria, causò ancora miglia di vittime americane (basti ricordare i Kamikaze): risultò chiaro al neo presidente Truman che un’invasione del Giappone via terra sarebbe stata impossibile, perché ciò avrebbe significato la perdita di numerose vite americane. Proprio da questo clima quasi di esasperazione, nasce l’idea che l’unica soluzione possibile sarebbe stato l’utilizzo della nuovissima bomba atomica. Il 6 agosto del 1945 venne sganciata la prima bomba su Hiroshima, in seguito, visto la resistenza dei Giapponesi, che non si piegavano alla resa incondizionata, venne sganciata la seconda su Nagasaki con la consequenziale firma dell’armistizio il 2 settembre successivo. Tra il 6 e il 9 agosto anche la Russia aveva dichiarato guerra al Giappone, e, in seguito, conquistò la Manciuria e la Corea.

LA PRIMA BOMBA ATOMICA

Dietro le stragi del 6 e 9 agosto del 1945 vi fu una vera e propria “task force” di ricerca
scientifica finanziata dagli USA.



“Churchil mi ha detto di aver notato ieri, all’incontro dei tre, che Truman era molto in forma per qualcosa che doveva essergli capitata, che si era scagliato contro i russi in modo deciso ed enfatico affermando che certe loro richieste non potevano essere soddisfatte e che gli Stati uniti erano assolutamente contrarie ad esse”. Queste sono le parole pronunciate dal segretario alla Guerra americano Stimson il 17 luglio del 1945 subito dopo il vertice di Potsdam, dove Truman, Stalin e Churchil stavano decidendo le modalità di proseguimento della guerra. Ciò che aveva spinto Truman a cambiare il suo atteggiamento nei confronti della Russia e dell’Inghilterra era qualcosa che avrebbe immediatamente cambiato non solo le sorti della guerra, ma del mondo intero negli anni a venire, qualcosa, ancora ignoto agli altri Paesi, che avrebbe causato morte e distruzione da un lato ed il futuro della produzione energetica mondiale dall’altro. Poco prima del vertice, il segretario particolare di Truman gli aveva passato un foglietto con il quale il presidente veniva informato del fatto che “i bambini sono nati normalmente”: un messaggio in codice che significava che il 16 luglio 1945 era stata fatta esplodere, in via sperimentale, la prima bomba atomica della storia dell’uomo, un arma di una potenza distruttiva neppure lontanamente paragonabile alle armi tradizionali. Truman sentiva ormai la guerra in suo pugno, sembrava quasi eccitato dalle nuove potenzialità militari acquistate dagli Usa e vedeva ormai il Giappone ai suoi piedi senza neppure la perdita di un soldato americano. La bomba atomica era per gli Stati Uniti il coronamento dei loro sforzi militari, economici, organizzativi e politici che avevano dato avvio in passato ad una “task force” di ricerca scientifica alla quale collaboravano scienziati di tutto il mondo, come, ad esempio, Einstein e Fermi, scappati dai loro paesi a causa dell’imperversante dilagare dell’antisemitismo tedesco. Ma la storia che ha portato al tragico evento dell’6 agosto 1945 è assai lunga e complessa. L’idea della possibilità di sfruttare la reazione a catena per produrre immani quantità di energia nacque nel 1939 per opera di Szilard, dopo che Bohr ebbe portato negli Usa la notizia della teoria della fissione elaborata da Frish. Szilard era uno scienziato ungherese che si trovava a lavorare negli Stati Uniti perché era dovuto scappare dall’Europa per evitare le persecuzioni naziste. La stessa cosa accadde a numerosi altri scienziati come Einsteini e Fermi, che aveva sposato un Ebrea e colse l’occasione del suo viaggio in Svezia del ritiro del premio Nobel per non fare più ritorno in patria. Così tutti questi scienziati trovarono un rifugio sicuro dalle persecuzioni naziste negli Stati Uniti d’America che avevano ora a disposizione un grande potenziale di “menti” da mettere al lavoro per la ricerca scientifica.
Tuttavia, fino al 1941-42, vale a dire fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti, gli scienziati non vennero presi in considerazione, circa la reale possibilità di costruire un arma nucleare, né dal presidente Roosevelt né dai suoi più stretti collaboratori. Dopo lo scoppio della guerra però sembrava che le parole di convincimento di Einsteini e di Szilard, circa l’incredibile progetto della bomba A, avessero assunto nella mente di Roosevelt una considerazione diversa: nel 1943 nasce a Los Alamos la prima comunità di scienziati incaricati di studiare il problema del montaggio della bomba. Questo progetto doveva certamente rimanere il più segreto possibile, ma nello stesso tempo doveva essere massimamente efficace e veloce nel raggiungimento dell’obiettivo finale per evitare che i nazisti battessero sul tempo gli scienziati americani e si trovassero in possesso di un arma che avrebbe potuto stravolgere l’equilibrio della guerra. Il progetto di Los Alamos venne definito da Truman, nel discorso ufficiale dell’8 agosto 1945 subito dopo il lancio della bomba, come “il più grande azzardo scientifico, della storia”, un progetto della durata di due anni e mezzo, con l’impiego di 125.000 uomini che lavoravano notte e giorno per assicurarsi il cosiddetto “primato atomico”. Sebbene, però, ciò che teneva uniti gli scienziati
a Los Alamos e ciò che li spronava a dare il meglio di sé fosse la paura di essere anticipati nell’impresa da scienziati di altre nazioni, questo stesso timore si rivelò controproducente quando, intorno al 1944, le spie americane assicurarono il governo che i tedeschi erano molto lontani dal costruire una bomba A: venne così a mancare la motivazione di fondo che aveva spinto gli scienziati a lavorare freneticamente. Fortunatamente per gli Usa, ormai il progetto guidato dal militare Groves e dallo scienziato Oppenheimer era giunto a buon punto e tutto sembrava pronto per la prima vera sperimentazione, puntualmente avvenuta il 16 Luglio 1945. La critica storica, però, è sempre stata attenta a mettere in evidenza come, pochi mesi prima di questa data, a Los Alamos si sia formata una prima opposizione all’impiego dell’ordigno nucleare da parte degli stessi scienziati promotori del progetto come, ad esempio, Szilard: per la prima volta un gruppo di scienziati avvertiva sulle proprie spalle delle responsabilità morali e politiche enormi. A questo proposito la scienziato ungherese tentò di opporre resistenza all’impiego della bomba facendo leva su Roosevelt, prima, e su Truman, dopo; tuttavia quest’ultimo sembrava fremere per l’impiego della bomba sul Giappone e decise perciò di convocare una speciale assemblea alla quale parteciparono Fermi, Oppenheimer, Compton e Lawrence i quali avevano il compito di esprimere un pare sulle possibili conseguenze ed utilità dell’impiego dell’energia atomica per scopi militari. Effettivamente, però, la commissione che Truman formò serviva solamente per contrastare e quindi abolire la proposta del gruppo di Szilard che, nel rapporto Frank, proponeva di impiegare la bomba A solo a scopo dimostrativo su un area desertica non lontana dal Giappone per dimostrare quale fosse la reale forza degli americani e per evitare un futuro ed ipotetico “olocausto nucleare”; così si espresse Szilard: “Le bombe nucleari non possono assolutamente restare un arma segreta ad uso esclusivo del nostro Paese per più di qualche anno. I presupposti scientifici su cui si basa la loro costruzione sono ben noti agli scienziati di altri Paesi. Se non si realizza un efficace controllo internazionale sugli esplosivi militari, è certo che immediatamente dopo la prima rivelazione a tutto il mondo del nostro possesso di armi nucleari, inizierà un generale riarmo. Entro dieci anni anche altri Paesi potranno possedere armi nucleari, ognuna delle quali, senza neppure raggiungere il peso di una tonnellata, potrà distruggere una città per più di dieci miglia quadrate”. Ma queste parole, che rappresentano l’ultimo e disperato tentativo di fermare un massacro, furono letteralmente gettate al vento. Truman respinse il rapporto Frank e diede inizio alle operazioni che l’6 agosto 1945 portarono l’aereo Enola Gay, comandato da Paul Tibbets con a bordo altri dodici uomini di equipaggio, a sganciare su Hiroshima la prima bomba atomica ad uranio 235 chiamata Little Boy. La distruzione di Hiroshima fu immediata, ma il Giappone non accennava alla resa, e, mentre il popolo americano rimaneva incantato dalle parole del presidente che aveva dimostrato appieno tutta la potenza militare degli Usa, lo stesso Truman, tre giorni più tardi, il 9 agosto, dà l’ordine di sganciare un altro ordigno su Nagasaki: la bomba, Fat Man, era questa volta basata sulla reazione del plutonio 239, ma il risultato dell’esplosione fu lo stesso di Hiroshima. Dopo la seconda strage il Giappone fu costretto alla resa accettando tutti i punti imposti dall’ultimatum di Postdam, assicurandosi soltanto la sovranità dell’imperatore.

PARLANO I POCHI SOPRAVVISSUTI



Numerose sono le testimonianze riguardanti i tragici fatti di Hiroshima e Nagasaki che ci vengono forniti dai pochi sopravvissuti che, per fortuna loro, si trovavano lontano dal centro città. Una di queste è stata fornita da Michio Morishima in un’intervista concessa al
“Corriere della Sera” il 4 agosto 1985. La terribile mattina del 9 agosto a Nagasaki è descritta attraverso gli occhi di un ufficiale di Marina intento a compiere il proprio dovere, mentre gli aerei americani facevano cadere grappoli di bombe sull’esercito Giapponese. Proprio per questo motivo l’ennesimo allarme antiaereo del mattino del 9 agosto venne quasi sottovalutato e la maggior parte dell’esercito e della popolazione era tranquillamente intenta a pranzare mentre, all’improvviso, esplose la bomba emanando una luce accecante mille volte più luminosa di quella del sole: la seconda catastrofe nel giro di tre giorni si stava abbattendo sul Giappone. Presto si capì che si trattava della bomba atomica, tutto venne raso al suolo, centinaia di persone polverizzate in solo istante, altre ferite così gravemente da essere irriconoscibili. Un inferno nel quale si aggiravano, immersi nella polvere, “ombre” di uomini le cui lesioni erano “così orribili che chi non le ha viste non può immaginarle”. Tale descrizione è molto simile anche a quella che ci fornisce Hara su “il corriere UNESCO” del novembre1975 parlando della mattina del 6 agosto a Hiroshima. Poco dopo le 8 la bomba esplose, naturalmente, senza che nessuno se l’aspettasse. Tra lo stupore generale di fronte al terribile scoppio, nessuno riusciva a dare una spiegazione a ciò che era successo: l’unica certezza erano le migliaia di persone ustionate che si erano rifugiate lungo il letto del fiume che attraversa Hiroshima per cercare un riparo e dell’acqua da bere. Lo scenario divenne ancora più terribile le mattine immediatamente successive, quando colonne di carretti portavano via centinaia di cadaveri: donne, uomini, vecchi e bambini indistintamente, tutti quanti bruciati, sfigurati e mutilati. Alcuni giorni dopo, la situazione diventò incontrollabile, i morti era troppi, nessuno riusciva più a portarli via: “le persone morivano una dopo l’altra e nessuno veniva a portar via i cadaveri. Con l’aria sconvolta, i vivi erravano tra i corpi. Si videro allora tutte le rovine nelle strade principali. Uno spazio vuoto e grigio si estendeva sotto un cielo plumbeo”. Purtroppo, queste non sono le uniche testimonianze dirette dei danni causati dalla bomba atomica. Anche in tempi più recenti, come ci testimonia Ettore Mo sul Corriere della Sera del 6 settembre 1995, gli esperimenti effettuati dalla Russia in Kazakhstan tra il ’49 e il ’90 hanno causato l’annientamento di parte della popolazione locale, usata come cavia e condannata a morte totalmente inebetiti, uomini e donne senza capacità di intendere e volere, vere e proprie larve umane bruciate dalle radiazioni che, ad una ad una, muoiono, tutt’oggi, nel silenzio di un buio corridoio d’ospedale. Tutto questo per dei semplici ed inutili esperimenti che servivano soltanto ad assicurare alla Russia il primato nucleare sugli Stati Uniti, dal momento che la minaccia di una guerra nucleare rimase una costante paura per il mondo intero per decenni. Ma dopo il crollo del Muro di Berlino questo triste primato ha svelato ilsuo volto più terribile: “mezzo milione di malati radioattivi e, molti di loro, ai tempi di Stalin, erano proprio delle cavie umane”. Ora l’eredità di quel triste passato è difficile da cancellare poiché i malati, ancora molti, sono ammassati negli ospedali e muoiono di giorno in giorno come ci testimonia Mo: “nell’ospedale che visito, in almeno due stanze, non c’è speranza di vita. Sono accatastati come povere bestie e immagino che alla sera gli diano qualcosa da bere e da mangiare (...). << Non guariranno mai – mi dice il direttore dell’ospedale – qui entrano e muoiono. Sono sette anni che vivo qui e non ho mai visto nessuno uscire vivo e sano da questo ospedale. Non sono un medico, sono il curatore di un cimitero. Non ci sono malati, c’è solo gente condannata all’estinzione>>”.

NESSUN PENTIMENTO PER IL PILOTA DELL’ENOLA GAY



Un fatto significativo della tragica esperienza dell’6 agosto del 1945, emerse alcuni anni più tardi in un’intervista al pilota dell’Enola Gay, Paul Tibbets, apparsa sul Corriere della sera del 4 agosto 1985. Tibbets ricostruisce con incredibile freddezza e con animo sereno ed imperturbabile ciò che gli apparve agli occhi alle 8 e 17 di quella tragica mattina, quando, con il suo aereo, virò di 160° per vedere ciò che rimaneva di Hiroshima. “Non c’era più nulla- dice Tibbets- se non una nebbia nera e ribollente che mi sembrò una specie di catrame. In verità era fumo, rottami, polvere. Sembrava che tutto gorgogliasse nell’aria...”. Allora Tibbets aveva 29 anni ed era l’unico, in veste di comandante della missione, a conoscere, fin dall’inizio, il vero scopo della missione; gli altri dodici uomini di equipaggio avevano soltanto una vaga idea di ciò che stava per accadere. Tuttavia da quella tragica mattina, Tibbets non provò mai dubbi o rimorsi, sentimenti come l’angoscia o il senso dell’orrore perché fermamente convinto di aver servito il proprio paese. Egli fa anche notare che le notizie diffuse dai russi circa la possibilità che l’equipaggio dell’Enola fosse composto da pazzi non siano altro che dicerie inventate per screditare l’operato dei piloti. Tibbets concluse la sua intervista con delle parole di certo significative che ci fanno comprendere quale fosse, in quel momento, l’amore verso la patria americana da parte dei soldati statunitensi: “Non sono un uomo bellicoso. Non mi piace l’idea della guerra nucleare. Se volete sapere la verità, non mi piace nessuna guerra (...) Fu il comandante del raid aereo su Pear Harbuor del 7 dicembre del ‘41 a farmi notare che avevo salvato più vite di quante ne avevo distrutte. Senza la bomba atomica, avremmo dovuto invadere il Giappone e ci sarebbe stata una lunga carneficina: i Giapponesi avrebbero combattuto fino alla fine, casa per casa, anche con le pietre e i bastoni. Vi dico una cosa: se oggi esistessero le stesse condizioni che v’erano nel ’45, non esiterei un istante a sganciare la bomba”.

DAL DISCORSO DI TRUMAN ALL’USO MODERNO DELL’ENERGIA NUCLEARE



Il 6 agosto il presidente degli Stati Uniti, Truman, diffonde il suo resoconto dell’attacco con la bomba atomica su Hiroshima. Un discorso sintetico che mira a mettere in luce lo sforzo compiuto dal suo paese per porre fine ad una guerra che ormai si protraeva da molto tempo e che incombeva come una minaccia costante sul destino e sulla vita di numerosi soldati americani. Così, per evitare un’invasione del Giappone via terra, che avrebbe causato la perdita di troppe vite statunitensi, Truman gioca la carta dell’atomica che risulta essere un vero “successo” agli occhi degli alleati. Le colpe logicamente vengono riversate tutte sui Giapponesi: “Sedici ore fa, un aereo americano ha lanciato una bomba su Hiroshima, importante base dell'esercito giapponese. Questa bomba possedeva una potenza superiore a quella di 20 mila tonnellate di trinitrotoluolo. Si tratta di una bomba atomica. La forza da cui il sole trae energia è stata sganciata contro coloro che hanno provocato la guerra in Estremo Oriente” (Harry Truman, annuncio radiofonico, 6 agosto 1945). Da questo momento in poi tutto il mondo venne a sapere della bomba e dei segreti intorno ad essa, così come li conosciamo noi oggi. Nelle dichiarazioni ufficiali della Casa Bianca e del Pentagono, negli articoli e nelle notizie provenienti dai laboratori e dagli impianti di produzione e poi, più tardi, nel famoso Smyth Report, la verità cominciò a venire a galla. Era una storia drammatica di prodigiosi sforzi, di brillanti conquiste, di attaccamento al dovere, di generosa cooperazione tra i vari gruppi del governo, dell'industria e dei laboratori scientifici. Bisogna sottolineare, però, che l’era atomica, apertasi in maniera tragica, ebbe però dei grossissimi sviluppi a livello industriale, tant’è che oggi viene considerata come l’unica reale alternativa al petrolio, ormai scarso, sempre più caro e più difficile da estrarre, prima di tutto per l’enorme quantitativo di energia che la reazione atomica può produrre rispetto al
quantitativo di Uranio o Plutonio impiegati e, in secondo luogo, per il basso tasso di inquinamento che produce. Ma fin dai tempi della scoperta della pila atomica di ferro, si era pensato alla possibilità di convogliare tutta quell’energia per mettere in moto le macchine industriali, come già ipotizzava nel 1942, alla luce della scoperta della pila atomica, il presidente della DuPont, Burney Russel, molto amico di Fermi. Dal petrolio al nucleare. Sin dall’inizio di questo secolo accanto alle forme tradizionali di fonti energetiche (come il carbone e l’energia idroelettrica) il consumo di petrolio si è andato affermando ed espandendo. Dagli anni trenta in poi, divenuti attivi i grandi giacimenti del Golfo Persico e dell’Iran, l’utilizzazione del petrolio come fonte energetica si è imposta rapidamente, anche grazie al suo basso costo, alla sua reperibilità e alla sua apparente disponibilità per un arco di tempo relativamente lungo. Infatti, mentre nel 1930 il petrolio forniva soltanto il 16% circa di tutta l’energia consumata nel mondo ed il carbone costituiva la principale fonte energetica, nel 1960 il petrolio contribuiva per il 35% circa del totale. Il petrolio rimane oggi la fonte energetica primaria che nel corso di questi ultimi decenni ha condizionato, e condiziona tuttora, l’andamento dell’economia mondiale. Le grandi crisi petrolifere, come quelle del 1973, sono indissolubilmente legate con una crisi economica mondiale, causata dal continuo “braccio di ferro” tra paesi produttori e consumatori. Come si è già detto, in concomitanza con la prima “ crisi petrolifera” del 1973, la gran parte dei paesi industrializzati si trovò nella necessità di programmare il proprio futuro energetico cicercando fonti alternative al petrolio. Energia nucleare, carbone e gas naturale furono le fonti primarie individuate come le principali produttrici di energia lungo un arco di tempo abbastanza lungo, accompagnate da altre che allora (ma ancora oggi lo sono) venivano considerate come fonti integrative, quali l’energia solare, quella eolica e quella del mare. L’energia nucleare è la fonte energetica alla quale il mondo guarda con speranza e con timore insieme; la sua utilizzazione sin dagli anni settanta ha causato dibattiti, discussioni e accese polemiche. Combustibile di base è l’uranio: se si pensa che un chilogrammo di Uranio greggio produce 10000 volte più energia di un chilogrammo di carbone ci si rende conto di quale potenzialità possa rendere disponibile questa fonte d’energia; di contro però, la costruzione di una centrale atomica è ancora molto costosa. I minerali uraniferi non sono tanto rari nel sottosuolo: i maggiori produttori di U3 O8 (ossido di uranio, considerato come riferimento) sono per ora il Canada e gli Stati Uniti d’America, cui seguono il Sudafrica, l’Australia, la Namibia, il Niger, il Gabon. In Australia sono stati rinvenuti giacimenti fra i maggiori attualmente conosciuti (nel 1990, infatti, le riserve erano stimate pari al 16% di quelle mondiali), Francia, Svezia e Danimarca sono i paesi europei che dispongono di riserve consistenti di uranio naturale (nel 1990 si valutavano attorno all’8% delle riserve mondiali); anche Paesi ancora in via di sviluppo, come il Brasile e l’India, dispongono di consistenti risorse non ancora sfruttate, ma c’è ancora molto da scoprire in questo campo, e parecchi dati non si conoscono per il segreto che circonda tale materiale strategico. Negli anni che vanno dal 1975 al 1990 i Paesi della CEE e i Paesi dell’O.C.S.E. hanno registrato un grosso incremento nella produzione di energia elettronucleare e sono passati da 63,9 miliardi di KWh ai 2118 miliardi di KWh. A queste vanno aggiunte le produzioni stimate per l’ex URSS (circa 211 miliardi di KWh nel 1990) e dell’India (5 miliardi di KWh sempre nel 1990) All’inizio del 1990 secondo i dati del rapporto 1990 della European Nuclear Society, nel mondo erano in esercizio 416 reattori e 80 erano in costruzione. Per i Parsi che più largamente usano l’energia nucleare per la copertura dei consumi energetici, dati del 1989 rilevano che in Europa – e particolarmente in Svezia, Francia, Svizzera e Belgio – la quota elettronucleare è rispettivamente del 45%, 74,6%, 41% e 61,1%, mentre in Giappone, Canada e U.S.A. utilizzano energia elettronucleare rispettivamente per il 26,4%, 16% e 19,1%. Con gli attuali reattori nucleari si sfrutta il fenomeno della “fissione”: atomi complessi di uranio (o di plutonio) vengono scissi in atomi più semplici e se ne ottiene anche una piccola quantità di massa che viene trasformata in energia. Il problema non ancora risolto dello stoccaggio sicuro delle scorie nucleari, quello della sicurezza dei siti che assicurino massima stabilità sismica, e due incidenti che hanno preoccupato l’opinione pubblica mondiale, verificatesi nella centrale americana di Three Miles Island (1979) e di Cernobyl in U.R.S.S., (1986), con differenti livelli di inquinamento atmosferico, hanno riaperto negli ultimi tempi il dibattito su questa risorsa, anche in vista della costruzione di reattori autofertilizzanti al plutonio che, in caso di incidente, potrebbero avere maggiori effetti inquinanti sull’ambiente. Bisogna aggiungere che l’inquinamento da sostanza radioattive dovute alle esplosioni atomiche (in mare, sulle terre emerse o nell’atmosfera) agli scarichi ed alle perdite incontrollate o incontrollabili delle centrali elettronucleari, ai rifiuti e alle scorie degli impianti di utilizzazione e di ritrattamento di materiali radioattivi, ai sommergibili e alle navi a propulsione nucleare, alle altre applicazioni pacifiche dei radioisotopi (ospedali, industrie ecc.). La prima di queste fonti ha destato vivissime preoccupazioni su scala mondiale soprattutto agli inizi degli anni sessanta (nel 1963 furono registrati alti gradi di contaminazione radioattiva specialmente nel Pacifico settentrionale), ma la parziale limitazione delle esplosioni nucleari ha poi ridotto sensibilmente i pericoli. Attualmente è ben più preoccupante il problema del confinamento delle scorie radioattive, a causa del massiccio incremento dei programmi nucleari conseguente alla crisi energetica. Secondo alcuni progetti, questi residui inutilizzabili, ma ancora altamente nocivi, dovrebbero essere sepolti in fosse oceaniche profonde; secondo altri progetti dovrebbero essere interrati in regioni geologicamente stabili e sicure: in entrambi i casi non vanno sottovalutati i notevoli rischi. Il progetto che potrebbe dare risultati estremamente più sicuri e a buon mercato e quello della fusione nucleare che è praticamente l’opposto: atomi semplici come quelli dell’idrogeno (meglio i suoi isotopi Deuterio e Trizio) fusi insiemi per ottenerne altri più complessi (atomi di Elio) e ricavarne energia come avviene nel sole e nelle altre stelle. Dagli inizi degli anni cinquanta si studiata questa possibilità, ma ancora oggi non sono stati raggiunti risultati pratici produttivi.

IL PROBLEMA DELLA BOMBA ATOMICA NON SI FERMA SOLO AL 1945.



Dopo l’esplosione delle due bombe sul Giappone la seconda guerra mondiale terminò: bisognava ora ristabilire l’ordine e riorganizzare il mondo dopo i terribili sconvolgimenti politico-militari causati dal conflitto. L’impresa non si rivelò facile, soprattutto per quanto riguardava la divisione della Germania che rimaneva una minaccia sia per i francesi a ovest, sia per i russi a est. Bisognava altresì aggiungere che tra le potenze vincitrici v’erano la Russia e gli Stati Uniti, due nazioni unite durante il conflitto per distruggere il nazismo, ma separate da ideologie politiche diametralmente opposte: fu quindi inevitabile la “rottura” dell’alleanza tra le due superpotenze alla fine della guerra. La fine dei buoni rapporti tra USA e URSS ebbe inevitabili ripercussioni sulla spartizione della Germania: l’Unione Sovietica teneva sotto controllo la parte est (che diventò nel ‘49 Repubblica Democratica Tedesca con capitale Pankow); gli Usa, la Francia e l’Inghilterra dominavano il settore ovest (futura Repubblica Federale Tedesca con capitale Bonn). L’Europa ed il mondo intero erano divisi in due e fu inevitabile che le tensioni tra i due blocchi aumentassero sempre di più, specialmente quando, nel 1949, la Russia compì il suo primo esperimento nucleare che levò agli Usa il primato atomico. Lo spettro di una terza guerra mondiale incombeva minaccioso perché avrebbe significato, molto probabilmente, l’annientamento del genere umano, date le dimensioni che il conflitto nucleare avrebbe potuto raggiungere. Ci fu una vera e propria corsa agli armamenti, seguita da un ricerca sfrenata di alleanze militari che si concretizzarono nel 1949 con la firma del Patto Atlantico tra i paesi dell’ovest: nasceva così la NATO che comprendeva undici paesi tra i quali l’Italia. A questa mossa, la Russia rispose nel 1955 con la firma del Patto di Varsavia, sottoscritto da gran parte dei paesi dell’est. Ma la lotta, in Europa, si svolse anche sul piano economico. Fu approvato, negli Usa, il cosiddetto piano Marshall, un sistema di aiuti economici concessi dagli Stati Uniti ai paesi alleati in Europa per risollevare le sorti della loro economia. Tale progetto portò indubbi benefici all’Europa anche se il rischio era quello di rimanere strettamente vincolati allo strapotere statunitense perdendo l’autonomia “Europea”. Si tentò quindi di formare delle associazioni di collaborazione economica che garantissero l’indipendenza dei singoli paesi alleati con gli Usa: nacque così l’OECE, la CECA, l’EURATOM e, infine nel 1957, la CEE. A queste unioni economiche tra i paesi dell’ovest, la Russia rispose con la formazione del COMECOM, un consiglio per la mutua assistenza economica tra i paesi dell’est. In questo clima di così grande tensione, concentrato soprattutto sul vecchio continente, anche le questioni internazionali considerate meno importanti fino a quel momento, diventano il pretesto per inasprire la lotta ed aumentare gli attriti tra le due superpotenze. Un caso, che ha costituito motivo di grande tensione in tutto il mondo, perché si è sfiorato l’uso della bomba nucleare, è costituito dalla guerra di Corea. Fino a quel momento la Corea era divisa in due zone: la Corea del nord, controllata dai Russi e la Corea del Sud, controllata dagli Americani. Il casus foederis è stata la violazione del confine, posto sul 38° parallelo, da parte delle truppe del Nord considerate come “invasori” dal consiglio di sicurezza dell’ONU (in quella seduta non era presente il rappresentante Russo per una forma di protesta contro l’esclusione della Cina Popolare, sostituita dalla Cina Nazionalista di Chiang Kai-shek, dal consesso delle nazioni unite). Inizia così, con l’approvazione dell’ONU, una guerra sanguinosa che si protrasse per oltre 3 anni e non portò ad alcun risultato: i confini rimasero pressoché gli stessi, le due superpotenze conservarono la loro influenza, anche se la guerra procurò un milione mezzo di morti per lo più tra i civili. Il rischio che il mondo ha corso durante questa guerra è stato di enormi proporzioni dal momento che alcuni documenti trovati in un secondo tempo, hanno testimoniato come alcuni gruppi militari americani e russi avrebbero spinto i loro governi all’uso dell’atomica. Ciò che probabilmente ha evitato la catastrofe è stata la reciproca paura delle due superpotenze, in quanto, dopo il ’49, nessuna delle due possedeva il “monopolio atomico”, e quindi si sarebbe sviluppata una lotta ad armi pari che avrebbe, molto probabilmente distrutto il mondo. La fine della “guerra fredda” Tutto questo lungo periodo di tensioni mondiali prende il nome di “Guerra fredda”, un’espressione che designa un arco di tempo nel quale la “guerra guerreggiata” rimase sempre una costante minaccia. Il periodo della “guerra fredda” è caratterizzato soprattutto dalla paura di un conflitto nucleare, per cui, la data del dicembre 1989, in cui il presidente degli Usa, Bush, e quello dell’URSS, Gorbaciov, firmarono un accordo che aprì la strada per il disarmo nucleare, viene assunta come data convenzionale per la fine della “Guerra Fredda”. La firma del 1989 fu il risultato di numerosi altri meeting, iniziati nel 1985 a Ginevra con l’incontro dei due leader delle superpotenze, Gorbaciov e Regan. Questo primo incontro non portò alla tanto sospirata denuclearizzazione, ma aprì indubbiamente un varco in tale direzione sostenuto, un anno più tardi, direttamente dall’URSS che proponeva un disarmo completo entro quindici anni di ogni testata atomica, una proposta dettata anche dalla recente paura dello scoppio della centrale nucleare di Chernobyl. Nello stesso anno i due leader si incontrarono nuovamente a Reykjavik, e nel 1987 a Washington, dove concordarono il disarmo degli ordigni a media e a corta gittata. Un ulteriore incontro venne organizzato nel 1988 che aprì la strada a quello più importante del 1989 a Malta. L’ultimo accordo, quello dell’effettiva denuclearizzazione, avvenne nel 1992 tra Bush e Etsin, che aveva assunto il comando della “nuova” Russia.

SIAMO ALLA FINE DELL’INCUBO O L’INCUBO CAMBIA APSETTO?



Dopo la fine dell’ultimo trattato tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, molti avevano pensato che incominciasse ad impallidire o ad allontanarsi la terribile ombra lunga del fungo di Hiroshima, il terrificante pericolo dell’olocausto nucleare. Tuttavia, pochi giorni dopo quella firma, nell’agosto del 1991, un tentativo di colpo di Stato in Unione Sovietica da parte di alcune frange dell’apparato militare ha dato avvio ad un processo che rischia di far naufragare le speranze appena sorte.
Dopo che Eltsin prende il potere e dopo la costituzione della confederazione di Stati Indipendenti (CSI), la Russia tenta sempre di proporsi come Stato guida sotto tutti i punti di vista. Essa vorrebbe il controllo di tutte le forze armate, comprese naturalmente quelle nucleari. Eltsin ha più volte dichiarato di voler condurre una politica estera ancora più pacifista di quella di Gorbaciov, in particolare di voler procedere speditamente verso un disarmo nucleare sempre più spinto; in ambiente governativo è stata avanzata perfino l’idea di vendere all’Occidente le armi nucleari costruite dall’Unione Sovietica per far fronte con il ricavato, agli enormi problemi dell’economia russa. Nella nuova situazione le attività di ricerca e quelle industriali legate alla progettazione e realizzazione di armi nucleari hanno così subito un forte rallentamento o, per taluni aspetti, un arresto. Sono stati avanzati progetti per convertire molte fabbriche appartenenti all’industria militare indirizzandole verso applicazioni pacifiche, quale la produzione di componenti per l'informatica oppure lo smaltimento di rifiuti tramite l’impiego di esplosioni nucleari sotterranee. Tuttavia la Russia non è in possesso dell’intero arsenale nucleare costruito dall’Unione Sovietica così come non possiede il controllo delle intere forze armate ex sovietiche. Tra la Russia e gli altri Stati ex sovietici che hanno sul proprio territorio basi militari importanti sono così sorti gravi contrasti per il controllo del potenziale bellico di questi armamenti, in particolare con il Kazakistan, sul cui territorio è dislocata gran parte dell’arsenale nucleare, e con l’Ucraina che detiene una parte notevole delle forze convenzionali. Queste dispute appaiono di difficilissima soluzione e rimangono dunque ingenti quantitativi di armi nucleari in aree geografiche in cui, come sta accadendo nei paesi caucasici, i conflitti etnici sono rapidamente sfociati in sanguinosi scontri, vere e proprie guerre civili. È evidente il pericolo rappresentato da un arsenale nucleare presente in zone in cui è in corso un conflitto tra gruppi militari che spesso non riconoscono alcuna autorità centrale, che operano secondo strategie proprie, in un contesto di violenza feroce che spinge ognuno ad usare qualsiasi mezzo per piegare gli avversari. Al pericolo rappresentato da un possibile impiego di armi nucleari nei conflitti interni agli Stati ex sovietici se ne aggiunge però un altro, ancora più inquietante rappresentato dall’impulso che la scomparsa dell’Unione Sovietica può dare alla proliferazione nucleare in Paesi che finora non sono riusciti a costruire un proprio arsenale nucleare. Verso questi paesi potrebbero infatti confluire materiali e uomini che facevano parte del complesso nucleare sovietico. Anche se vi sono segni indubbi di un commercio segreto, per ora di entità non rilevante, di materiali fondamentali per la ricerca e la produzione nel campo delle armi nucleari, tra funzionari, trafficanti, malavita dell’ex Unione Sovietica e Paesi vogliosi di arrivare a costruire una bomba nucleare, il pericolo maggiore è oggi rappresentato dalla “fuga di cervelli” dai Paesi della Confederazione degli Stati indipendenti, in particolare la Russia, ove sono quasi tutti i centri della ricerca. Gli esperti nucleari russi sono moltissimi: si calcola che le loro famiglie formino un gruppo di oltre 750.000 persone, anche se secondo la CIA non sarebbero più di 2000 quelli in grado di dare contributi veramente importanti per la realizzazione di una bomba nucleare. Con il blocco quasi completo dei programmi di sviluppo delle armi nucleari decretato nel 1991 in Russia, questi esperti si trovano demotivati, giacché ormai i loro laboratori non sono più all’altezza e il loro lavoro non ha più molto senso in un Paese che vuol vendere le proprie testate atomiche per saldare i debiti. Soprattutto essi hanno perso i loro privilegi economici e, nel difficile clima generale creato dalla profonda crisi della società russa, sono ormai ridotti a vivere in condizioni materiali insoddisfacenti, per di più in località disagiate, come sono quelle in cui sono ubicati i centri di ricerca (molti dei quali si trovano in Siberia). La politica di disarmo di Eltsin lascia poi intravedere un futuro di disoccupazione totale. Si comprende pure bene come questi scienziati possano venire attratti dalle offerte generose che vengono loro fatta dai Paesi come l’Iran e la Libia, ma anche da India, Iraq, Pakistan, Corea del Nord e Algeria. Va anche tenuto presente che non pochi esperti russi sono originari delle repubbliche dell’Asia centrale e quindi per motivi ideologici sono particolarmente sensibili alla propaganda dei Paesi islamici. I Paesi occidentali hanno prestato attenzione al rischio costituito da questo possibile trasferimento di conoscenze fuori dalla Russia e sono state progettate iniziative per offrire posti di lavoro attraenti per i tecnici russi, in modo da distoglierli dalle tentazioni dei Paesi non ancora nuclearizzati. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno a più riprese denunciato nel corso del 1992 il pericolo che la scomparsa dell’Unione Sovietica significhi una accelerazione del processo di proliferazione nucleare, impiegando come argomento forte i risultati delle ispezioni compiute, pur tra molte difficoltà, negli impianti bellici dell’Iraq dopo la conclusione della guerra del Golfo. La guerra degli Stati Uniti e dei loro alleati contro l’Iraq nel 1991 era stata giustificata, tra l’altro, come guerra preventiva, mirate a smantellare l’apparato militare iracheno che, si diceva, era molto prossimo ad acquisire la capacità di costruzione di una bomba atomica. Stante questa premessa, appare ovvio che gli Stati Uniti abbiano interesse ad enfatizzare i risultati delle ispezioni compiute al termine della guerra, al fine di accreditare la tesi che la macchina da guerra di Saddam Hussein fosse molto sofisticata. Tuttavia, pur prendendo con le dovute cautele le dichiarazioni allarmate del Dipartimento di Stato americano, bisogna ammettere che le ispezioni hanno almeno confermato i sospetti che si avevano circa uno stato ormai avanzato delle ricerche irachene in campo nucleare. (Già nel 1981 l’aviazione israeliana aveva bombardato l’impianto in costruzione di Tammuz, accusando l’Iraq di procedere sulla strada della bomba nucleare).
Molti impianti iracheni sono andati distrutti per i bombardamenti e certo i piani di Hussein sono stati ritardati, ma appare chiaro che ormai molti Paesi, nel giro di pochi anni, saranno capaci di costruire armi nucleari. Muta dunque lo scenario: dalla prospettiva di un conflitto planetario che vedeva contrapposte le due grandi potenze, si va configurando uno scenario più articolato, e dunque più difficile da comprendere e controllare, con una pluralità di Paesi dotati di limitati armamenti nucleari che possono decidere di impiegare contro un più debole vicino o come arma di ricatto nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati. Se fino a ieri uno scoppio di una guerra nucleare era fondamentalmente una questione che riguardava due Paesi , ora sembra coinvolgere tendenzialmente una pluralità di attori; viene dunque a dipendere da un gioco ben più complesso e delicato, che richiede strumenti nuovi e più sofisticati per pensare, comprendere e progettare le relazioni tra i popoli.

LA BOMBA: VI E’ ANCHE UN PROBLEMA DI “MORALE”



Da quando è stato inventato il primo ordigno, gli esperimenti sul nucleare e sulla successiva bomba all’idrogeno si sono moltiplicati e, di conseguenza è aumentato il rischio di una totale distruzione del pianeta in caso di un impiego massiccio di tali armi. Il problema è stato immediatamente capito anche dalla comunità scientifica che si era direttamente interessata alla realizzazione della bomba e, già dopo il ’45, alcuni scienziati come Einstein e Heisemberg mostravano il loro disappunto e la loro effettiva paura di fronte all’espandersi di una così grande minaccia. Uno dei punti chiavi sottolineato da Einstein ne “Appello per la pace” del 1955 è quello di “mettere da parte i sentimenti politici e di considerarsi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una storia importante e della quale nessuno di noi può desiderare la scomparsa”. Einstein insiste più volte sul fatto che la bomba A e la nuova bomba H, se impiegate in numero elevato, senza alcun dubbio provocherebbero una morte generale di ogni forma di vita, non solo per causa diretta dello scoppio, ma anche, e soprattutto per la prolungata “pioggia mortale” che investirebbe il pianeta: il genere umano verrebbe “torturato dalle malattie e dalla disintegrazione”. Risulta quindi ovvia la domanda finale che gli scienziati si pongono: “...dobbiamo porre fine alla razza umana, oppure l’umanità dovrà rinunciare alla guerra?”. Di fronte a questo interrogativo ritorna di attualità un tema proposto da Hegel agli inizi dell’ottocento. Egli infatti sosteneva ne “Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio” che la guerra non solo fosse inevitabile e necessaria (allorquando non vi siano le condizioni per un accomodamento delle controversie tra stati), ma anche altamente morale. Per sostenere questa tesi egli faceva un esempio, diventato celebre, con il quale paragonava la guerra al “movimento dei venti che preserva il mare dalla putredine, nella quale sarebbe ridotto da una quiete durevole”. Hegel inoltre sosteneva l’impossibilità dell’esistenza di un diritto internazionale che potesse regolare le controversie tra stati, anche se ciò è stato in parte smentito dalla storia dopo la creazione dell'ONU (bisogna però dire che la filosofia di Hegel è alquanto datata e sicuramente agli inizi dell’ottocento nessuno si sarebbe potuto immaginare le grandi trasformazioni del secolo successivo), vale a dire che secondo il filosofo tedesco, l’unico giudice è la Storia, cioè lo Spirito, che si fonda principalmente sulla guerra e usa i grandi personaggi (come Napoleone o Cesare) soltanto per raggiungere il suo fine, vale a dire quello di conoscere se stesso.
 
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